I vecchi e il mare

Le attività dei sanvitesi

Un grido dal Colle in una calda giornata estiva: Oh! Te’ riminì le paranze da Acquarotte!” Le barche, appaiate, avanzano a vele spiegate verso San Vito. Su, in Paese, è subito fermento. In tanti accorrono al Belvedere. Ognuno tenta di scorgere, per primo, il colore ed il disegno delle vele che via via fioriscono laggiù, dalla caligine di Punta Penna, per riconoscere chi sono i marinari di ritorno. Alcuni si affrettano per le scalette che portano alla Marina, già immersa in atmosfera festaiola. Siamo alla fine degli anni ’20, alla vigilia dei festeggiamenti della Madonna del Porto, ricorrenza alla quale i pescatori delle paranze non vogliono assolutamente mancare.
Dopo oltre un mese di pesca in acque pugliesi, vicino a Lesina, i marinari fanno ritorno a San Vito, con il carico di pesce seccato a bordo, di vino e pane pugliesi per i famigliari e con il gruzzolo racimolato per saldare i debiti contratti in paese. Un leggero vento di scirocco gonfia le vele e, in breve, quelle paranze sono vicine all’approdo, insieme alle tante altre rimaste a pescare in zona. Un arcobaleno silenzioso di vele che scivolano tra le increspature marine si contrappone all’ indistinto vociare di terra. In un attimo, sulla spiaggia della Marina, voddavia (verricelli verticali) e traçitori (sorta di paranchi) si attivano per tirare a secco le imbarcazioni. Perpendicolarmente a queste, sui sassi, sono già disposte le palàncule, traverse di legno appositamente ingrassate per far scivolare meglio la chiglia delle paranze. Dopo la fatica, abbracci, saluti, una sequela di chi, quando, dove, come… quanto.
Scene che appartengono ad un’ epoca remota, ma ben presenti nel ricordo dei sanvitesi. Con un salto nel tempo veniamo ai giorni nostri e cerchiamo di capire cos’ erano le paranze e quanto siano state importanti per San Vito. Le paranze erano imbarcazioni a vela utilizzate per la pesca a strascico. Esse costituivano, ancora ai primi decenni del secolo, il vanto della nostra marineria, la cui flottiglia era la più importante del medio Adriatico, dopo quella di San Benedetto del Tronto. Su quelle barche hanno passato e si sono costruiti una vita tanti sanvitesi, sfidando le intemperie e le imprevedibili insidie del mare.
Per ricapitolarne le ultime pagine è stato necessario rintracciarne i protagonisti, due vecchie glorie della nostra marineria, Tommaso Spineto, classe di ferro 1913 e Vito Olivieri, di un anno più anziano. “I marinari sanvitesi, prima dell’ultima guerra erano senz’ alcun dubbio considerati i migliori della zona – dice con sguardo orgoglioso, Tommaso, più noto negli ambienti della pesca locale come Cirillino, dal nome di una barca su cui aveva prestato servizio da giovanissimo – Alla fine degli anni ’20, a San Vito c’erano ben 32 coppie di paranze. Ortona e Fossacesia ne avevano molte, ma molte di meno.” Si parla di coppie perchè la tecnica di pesca usata dalle paranze richiedeva che veleggiassero appaiate (da questo deriva il loro nome).
Se si pensa che ognuna di esse imbarcava mediamente cinque marinari e che numerosi erano pure i cosiddetti battellucci, è facile concludere che gli addetti al settore pesca costituivano all’ epoca l’asse portante dell’economia strettamente cittadina. Sulle paranze trovavano lavoro i maschi di tutte le età. “Si cominciava da giovanissimi, facendo il murè, il ragazzo di bordo. Si rimarchiavano le reti, si prendeva confidenza con le vele, i venti, il mare e piano piano si imparava l’arte cchiù prelibbate! – ricorda, con la consueta arguzia, Vito, per tutti, in paese, la Stira, nomignolo affibbiatogli a bordo in gioventù, quando, in seguito alla pesca di un grosso palombo, aveva più volte esclamato con incontenibile soddisfazione: “La stira! la stira!” Le paranze, dati i tempi e i mezzi, avevano dimensioni notevoli: i loro capaci scafi di quercia, tondeggianti a prua, superavano quasi sempre i 10 metri. Essi erano modellati con rara perizia dai locali calafati, i Bruni, i D’Alessandro, i Berghella, i maestri d’ascia che avevano le loro fumiganti botteghe giù alla Marina, vicino alle due spiagge, ai lati del Feltrino, dove venivano ritirati i natanti. “Ogni coppia di paranze aveva a terra le sue apparecchiature e un posto prestabilito, che solo in caso di maltempo si era costretti talvolta a cambiare – continua Tommaso – Dopo il rientro, sulle barche lasciavamo tranquillamente reti, vele, remi, senza alcun timore di furti.” Le paranze avevano un solo albero che sosteneva un’ampia vela triangolare (latina), su cui spiccava un disegno che la contraddistingueva a mo’ di targa. In alcune circostanze ne veniva montata una più piccola, lu palaccone. Alla manifattura delle vele provvedevano alcuni marinari locali, mentre le reti provenivano per lo più da San Benedetto. Ogni pescatore era, comunque, in grado di rammendarle. I nomi delle imbarcazioni erano scelti principalmente tra quelli dei santi più noti o più cari alla devozione personale.

murè
Paranze in coppia

La tecnica di pesca a strascico delle paranze era molto singolare perchè impegnava due barche alla volta. Ad illustrarcela è la Stira: “Al timone delle due barche si mettevano i loro padroni, il barone e il sottobarone, che decidevano dove andare. Nel punto ritenuto pescoso, i pescatori della prima paranza calavano la vela per fermarsi e gettavano il sacco della rete in mare, tenendone a bordo i due capi. I marinari dell’altra barca, che si avvicinava lentamente, lanciavano verso la prima una grossa resta, lu libbàn’, per agganciare a sè una cima della rete.” Con questa manovra i due bracci di rete venivano legati alle paranze, che potevano finalmente partire per la pesca vera e propria. “Si alzava la vela – aggiunge, precisissimo, Cirillino – Le barche prima si distanziavano per tutta la lunghezza della resta e poi procedevano per lo strascico.
Per tenere a fondo la rete si usavano due reste più piccole, la pedàn’ e la pedanell’. Se non c’era abbastanza vento si montava una seconda vela più piccola del palaccone, lu palaccunett’.”
Terminato lo strascico, la rete veniva ritirata con un’operazione inversa. Le barche si stringevano fino a toccarsi e poi si dividevano ciò che veniva tirato su: una prendeva a bordo la rete, l’altra il pesce.
A terra, in seguito, si facevano le spartizioni del pescato o del ricavato della vendita. Esse prevedevano parti uguali per tutti, tranne che per barone e sottobarone ai quali spettava anche la “parte per la barca”, in quanto proprietari, e per il murè che prendeva il ridotto quartarol’. Se la pesca era abbondante, superiore cioè al fabbisogno alimentare delle famiglie dei marinari, il pesce veniva venduto sul piazzale stesso della Marina. A tale operazione partecipavano talvolta le mogli dei pescatori, che offrivano il pescato nei cosiddetti panari. Acquirenti principali erano i pescivendoli che provvedevano a far arrivare i prodotti ittici anche nei paesi dell’entroterra.
Le stagioni di pesca non erano uguali per tutti i pescatori delle paranze sanvitesi. Alcuni, nei periodi più caldi, preferivano spostarsi per settimane a sud, in acque più pescose, ad Acquarotta, nei dintorni di Lesina, o a Saccione, al largo di Campomarino; altri invece rimanevano tutto l’anno a pescare in zona. Per questi ultimi la giornata si svolgeva più o meno immutata lungo i mesi.
Di notte i baroni si recavano al Colle per prevedere il tempo. Guardavano la Majella, l’orizzonte, studiavano i venti e decidevano se partire, aspettare ancora un po’ o rinunciare. Se propendevano per la prima ipotesi, passavano a chiamare i marinari che, ancora a notte (prime di matutine), lasciavano le case per scendere giù alla Marina e salpare. “Gli equipaggi trascorrevano gran parte della giornata a bordo e tornavano a terra in pomeriggio – spiega, corrugando la fronte sotto l’inseparabile basco blu, Vito – Di solito si andava verso le valli, a Torino di Sangro; con il vento favorevole anche oltre.”

Olio e vino

E per mangiare? “Si mangiava pesce,pesce, pesce e pesce … – risponde, con ironia, nella migliore tradizione marinara, Tommaso Sottocoperta c’era lu fucon’ (un braciere di legno orlato di mattoni, al cui fondo c’era sabbia, ndr) per cuocere il pesce appena pescato. Olio e vino erano già a bordo e alla fine il murè lavava i piatti con l’acqua di mare.” Per la fuoriuscita del fumo vi era un’apposita apertura nel soffitto del sottocoperta, lu purtell’.
Per i marinari come i nostri due lupi di mare che andavano a pescare al largo delle coste pugliesi o delle Tremiti, la paranza diveniva una vera e propria casa. “Si partiva alla metà di marzo in una giornata di maestrale e si arrivava prima di sera. Si tornava a casa solo per brevi periodi: a giugno per la festa di San Vito, a luglio per quella della Madonna del Porto – puntualizza il più vecchio dei due – Se il tempo si manteneva buono, rimanevamo laggiù fino ad ottobre.”
Durante quelle settimane i marinari toccavano terra o per i contatti giornalieri con lu viaticar’, colui che, con una sorta di appalto, si impegnava ad acquistare il pescato e a rifornire gli equipaggi delle uniche cose occorrenti, pane e vino quotidiani, o perchè costretti dal maltempo. Altrimenti la loro vita era sempre e solo in mezzo al mare, anche quella notturna. “Dormivamo sottocoperta su sacchi di paglia, dopo aver ancorato le paranze vicino alla costa – sottolinea Tommaso.

Terra, vele, venti

Per orientarsi i marinari non incontravano grandi difficoltà, perchè navigavano quasi sempre con la terra a vista. La bussola, sulle paranze, serviva solo nei rari momenti di nebbia. Più difficile era superare i momenti di vento non propizio o, addirittura, assente. Con la bonaccia che afflosciava le vele, per muoversi, ai pescatori non rimaneva che mettersi ai pesanti remi ed avvicinarsi alla costa. I venti più ostici erano il greco e levante che rendeva problematici l’uscita e il rientro delle barche, e il garbino, che non permetteva buona pesca, almeno nelle nostre zone.
Ma la situazione più temuta era quella della rivolgiatura, l’improvviso ed imprevisto peggioramento della situazione metereologica, che metteva a dura prova la perizia, e spesso a repentaglio la vita, dei marinari. Allora, era tutto un gioco di vele. “Con la rivolgiatura si scendeva un po’ la vela per non subire tutta la forza del vento – rivela la Stira – La vela, così scesa e legata con i marafunnitt’, si chiamava terzarol’ o cungir’, a seconda del suo grado di ripiegamento.” “Oppure si usava una vela più piccola del palaccunett’, lu mangiamàr’ – completa l’altro.
I marinari, all’interno della società sanvitese, portavano una nota di colore e vivacità. La loro vita, fatta di rischi e continuo confronto con pericoli e imprevisti, li rendeva molto sicuri di sè e conferiva ai loro atteggiamenti un caratteristico tono di spavalderia che sconfinava talvolta nell’arroganza. Una volta a terra, smessi li saliparill’, i marinari si facevano notare per il loro abbigliamento curato e costoso. La Stira conferma, mettendo il suo sigillo: “Lu marinar” facè lu luss’ cchiù delu cafone!” Di scarso o nessun livello d’istruzione, com’era comune tra la classe lavoratrice del tempo, essi erano sicuramente esuberanti, pronti alla battuta, spesso salace e dissacrante, e particolarmente chiacchieroni. Quest’ultima caratteristica è alla base del detto popolare “lu marinar’ fà quattr” “, secondo cui, in corso di giudizio, ci sarebbero voluti quattro marinari, e non già uno solo, per rendere attendibile la loro testimonianza. La condizione di vita dei marinari non era comunque facile, neanche per i baroni. La lotta quotidiana contro l’avarizia del mare non sempre li ripagava e poteva così accadere che la paranza, unica fonte di sostentamento delle famiglie, cadesse sotto ipoteca per l’impossibilità di pagare altrimenti i debiti. Averne una propria era un punto d’arrivo, ma per molti rimaneva un sogno. La maggior parte dei marinari proveniva da San Vito Paese e popolava il Colle, non a caso roccaforte rossa di quei tempi.

Nuova era, altri lidi

Il declino delle paranze iniziò negli anni ’20 e si accentuò nel decennio successivo. La loro scomparsa si confuse con il disarmo generale delle attività economiche causato dalla guerra. Con l’avvento dei motori sulle barche cominciò una nuova era per la pesca e, purtroppo, per le acque marine. In breve le paranze si rivelarono difficili da gestire, macchinose ed obsolete, i lidi sanvitesi non idonei a dar rifugio ai nuovi pescherecci.
Altre attività, più redditizie e meno faticose, attirarono i marinari, delusi da un mare che
stentavano a riconoscere, sempre meno pescoso, forse perchè neanch’esso riconosceva più loro.
L’emigrazione dominò il dopoguerra. San Vito non ebbe più la sua flottiglia, perse la sua vocazione marinara e tanti posti di lavoro. La riviera ligure accolse i suoi figli e i segreti della loro arte.

Fabio di Giovanni
Fonte: La Ginestra dicembre 1994 pag.3-5